TESTIMONIANZE
Nell’ambito del progetto #DAREVOCEALLAMEMORIA i ragazzi degli istituti coinvolti durante le ore di formazione hanno avuto la possibilità di ascoltare le testimonianze dei famigliari di alcune vittime dell’Olocausto, e nello specifico dei fatti riguardanti il rastrellamento del ghetto di Roma negli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Nell’autunno 1943 gli ebrei residenti nella città di Roma erano circa 13.000 e vennero duramente colpiti dalle Leggi Antiebraiche emanate nel 1938 dal governo fascista di Benito Mussolini. A causa di queste leggi venne richiesto a tutti gli ebrei di consegnare alle autorità gli oggetti di valore in cambio della salvezza.
Storia di Emanuele Di Porto
Intervento di Emanuele Di Porto
Grazie all’intervento di Emanuele Di Porto abbiamo potuto ascoltare direttamente dalla sua voce una ricca testimonianza dei fatti accaduti a lui e alla sua famiglia il giorno del rastrellamento dal ghetto di Roma nel 1943.
Emanuele Di Porto, nato il 21 settembre 1931, all’epoca della vicenda aveva circa 12 anni e abitava al centro del ghetto insieme alla sua numerosa famiglia (composta da tre nuclei famigliari differenti).
Il 15 ottobre 1943 era un venerdì assolutamente normale e nessuno si poteva immaginare quel che sarebbe accaduto l’indomani. La mattina successiva, alle ore 5, sentirono dei rumori provenire dalla strada ed affacciandosi alla finestra videro i primi tedeschi fare irruzione nelle case degli ebrei.
La madre di Emanuele pensava, però, che avrebbero portato via soltanto gli uomini perciò decise di avvertire il marito che lavorava come ambulante alla stazione ferroviaria. Sulla strada verso casa, proprio vicino al portone della loro abitazione la mamma venne presa dai tedeschi e caricata su un camion. Emanuele osservò la scena da una finestra del loro appartamento e preoccupato decide di scendere in strada e avvicinandosi al camion venne caricato anche lui da un soldato tedesco.
A questo punto la madre riuscì, anche se Emanuele non ricorda precisamente le dinamiche dei fatti, a farlo scendere dal camion. Quello è stato il momento in cui il giovane vide per l’ultima volta sua madre. Per alcune ore si aggirò per le strade della città di Roma incontrando altri camion che portavano via gli ebrei dalle loro case, fino a che non salì su un tram. Trascorse sul tram alcuni giorni fino a che un amico di famiglia gli disse che il padre si era salvato insieme ai suoi fratelli. Decise così’ di tornare a casa e di ricongiungersi con quel che restava della sua famiglia.
Seguirono degli anni molto difficili poiché aveva 8 fratelli e il padre cadde in depressione dopo l’arresto della moglie. Emanuele cominciò così a vendere souvenir alla stazione vivendo giornalmente in una situazione molto pericolosa tuttavia il ragazzo trascorse questi ultimi anni di guerra senza accorgersi realmente del pericolo che correva lavorando proprio a stretto contatto con i soldati tedeschi. A tal proposito durante l’intervento ci racconta di un episodio pericoloso, ma allo stesso tempo fortunato che gli accadde in quel periodo: un giorno alla stazione un tedesco gli pagò dei souvenir 500 lire al posto di 50 lire. Per una settimana decise di nascondersi in casa per paura che gli potesse fare del male una volta resosi conto dell’errore. Tornato al lavoro però rincontrò il soldato tedesco che pareva non aver sospettato nulla e anzi vedendolo lì come sempre gli regalò una cioccolata calda.
All’alba del 1945 Emanuele assistette all’arrivo dei soldati americani e partecipò alla Liberazione nell’unica maniera possibile. Mentre tutti si riversarono nelle strade della città per festeggiare la fine della guerra il giovane si ritrovò in Piazza Venezia ad urlare: “Io sono ebreo”.
Soltanto mesi dopo, quando incontrò l’unica donna sopravvissuta alla deportazione (partirono in 1500 e ne tornarono 16) scoprì attraverso il suo racconto, che la mamma morì il giorno stesso del suo arrivo a Birkenau nelle camere a gas. Il totale dei residenti ebrei nel ghetto di Roma ad essere stato vittima del rastrellamento fu di circa 2000 persone, una settantina di essi riuscirono a salvarsi dalla deportazione nel periodo di imprigionamento che precedette il viaggio in treno. Vennero deportati ad Auschwitz circa 1500 ebrei e al termine della guerra di coloro che partirono dalla stazione ferroviaria Tiburtina ne ritornarono in patria soltanto 16.
Storia di Lorella Zarfati
Articolo tratto dal Corriere della Sera
16 ottobre 1943, il vestitino di Emma deportata nel lager
Walter Veltroni
Siamo nella mattinata del 16 ottobre del 1943. In tutta Roma, non solo al ghetto, gli ebrei vengono sequestrati dai nazisti. Vengono portate via dalle loro case 1024 persone. Tra di loro 200 bambini. Torneranno in sedici. Una sola donna e nessun bambino. È stata presentata con la comunità una nuova iniziativa del Museo della Shoah che ha installato nella sua sede e dal 27 gennaio 2022 renderà disponibile in rete una mappa interattiva della deportazione di ottobre. Dal sequestro delle persone alla loro permanenza al collegio militare, dal viaggio verso lo sterminio al ritorno dei sopravvissuti. Memoria non solo della grande Storia ma delle storie di quegli esseri umani la cui vita fu spezzata quel giorno del 1943.
Il vestitino della cuginetta
Lorella Zarfati un giorno, dopo la morte di sua nonna Emma Ajò Calò, ha trovato in un cassetto della sua casa una federa ingiallita dentro la quale c’era un vestitino da bambina. Era quello della sua cuginetta, Emma di Veroli, e le era stato donato quando aveva compiuto quaranta giorni. La bambina era del 1941. In quel maledetto ottobre aveva dunque due anni. Sua mamma era una ragazza di 23 anni. Si chiamava Grazia Ajò Di Veroli e si era sposata con Mario. Erano una coppia bella, di ragazzi che sognavano il futuro. Quella mattina Mario e la bimba sono nella piazza di Monte Savello. I tedeschi li prendono e li caricano sui camion della deportazione. Nel caos di quei momenti qualcuno avverte Grazia che scende da casa disperata alla ricerca dei suoi cari. Li vede sul mezzo tedesco e non ci pensa un istante, chiede di salire per restare con loro.
Destinazione Auschwitz
Tutti cercano di mettersi in salvo, Grazia, ragazza ebrea, non può immaginare di sopravvivere senza suo marito e sua figlia. Come tutti gli altri arriveranno ad Auschwitz, dopo la breve permanenza al collegio Militare e il lungo viaggio nei vagoni piombati. Giunti al campo di sterminio la mamma e la figlia verranno passate subito per la camera a gas. È trascorsa solo una settimana da quella mattina nel ghetto. Mario, invece, distrutto dal dolore e dalla fatica, morirà qualche mese dopo. Anche il padre di Grazia ed Emma, si chiamava Giacobbe, verrà ucciso ad Auschwitz-Birkenau. Era un ambulante, uno dei tanti mestieri che gli ebrei, dopo le infami leggi del 1938, non potevano più esercitare. Fu arrestato nell’aprile del 1944 e portato a Fossoli. Di lì poi trasferito con i viaggi della morte al campo di sterminio, dal quale non è mai tornato.
I malandrini di Trastevere
Lorella Zarfati racconta di una sua zia, Elisabetta Ajò, che, saputo quello che stava succedendo alla sua famiglia e alla comunità, prese i suoi tre bambini e si mise su Via Marmorata, nel quartiere di Testaccio. Fermò un taxi e disse, forse imprudentemente, al guidatore che era ebrea e che non sapeva dove andare. Il tassista non la denunciò, non incassò le cinquemila lire della corsa, ma la tenne per tutto il giorno sulla sua auto. Le fece girare Roma e poi la sera la portò a casa e la fece dormire con i tre bambini in cantina. La nonna di Lorella riuscì invece a sopravvivere alla razzia perché si riparò nell’appartamento che stava al primo piano dell’edificio in cui suo padre esercitava il mestiere di sfasciacarrozze. Era una casa di tolleranza. Ma la tenutaria le ricoverò e la sera, quando arrivavano i nazisti per divertirsi, nascondeva la famiglia in uno sgabuzzino con la raccomandazione del silenzio assoluto. I «ladri e le puttane» diceva Lucio Dalla. E nel racconto di Lorella entrano così anche i malandrini di Trastevere. Suo nonno paterno Pellegrino Zarfati quella mattina del 16 ottobre vide due macchine nere e scorse i camion in strada. Prese la famiglia e scapparono su per i tetti. Ma non sapevano come sopravvivere. Allora si rivolse al ladro del quartiere, il più celebre, e gli chiese dei soldi in cambio del poco oro sfuggito alla colletta fatta dalla comunità ebraica per ottemperare alla richiesta — all’inganno — dei nazisti che obbligarono gli ebrei romani a pagare in cambio della promessa salvezza della vita. Il ladro guardò Pellegrino e rifiutò l’oro. Gli diede il corrispettivo in soldi ma non volle nulla in cambio. Il nonno di Lorella gli disse che non sapeva se sarebbe tornato. Anzi, non sapeva se sarebbe sopravvissuto. Il ladro di Trastevere gli disse solamente: «Zarfati, tu devi tornare, perché mi devi restituire i soldi».